Bulimia

di Giulia Gamberini e Elisa Rognini

La bulimia nel genere maschile e nel genere femminile

1. Introduzione

La bulimia nervosa, definita da Polivy e Herman la malattia degli anni ‘80 (the desease of the eigthies), è un disturbo dell’alimentazione la cui caratteristica principale è rappresentata dalla presenza di ricorrenti abbuffate, a cui seguono inappropriati comportamenti compensatori per prevenire l’aumento ponderale.
I criteri diagnostici DSM-5 della bulimia nervosa sono i seguenti:
1. Ricorrenti episodi di abbuffata. Un episodio di abbuffata è caratterizzato da entrambi i seguenti aspetti :
a) Mangiare, in un determinato periodo di tempo (per es., un periodo di due ore), una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili.
b) Sensazione di perdere il controllo durante l’episodio (per es., sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa o quanto si sta mangiando).
2. Ricorrenti ed inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o attività fisica eccessiva.
3. Le abbuffate e le condotte compensatorie inappropriate si verificano entrambe in media almeno una volta alla settimana per 3 mesi.
4. I livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal peso del corpo.
5. L’alterazione non si manifesta esclusivamente nel corso di episodi di anoressia nervosa

2. Bulimia in ottica ermeneutico-fenomenologica

“Il bisogno di essere approvati dall’altro come unica possibilità di sentirsi è la caratteristica fondamentale che sottende il comportamento bulimico. A differenza dell’anoressica, la bulimica non ha bisogno di una radicale e repentina demarcazione dall’altro per giungere al corpo, bensì vive il proprio corpo come il punto archimedico di confronto con l’altro” (Liccione, 2011)
Per prima cosa bisogna distinguere due condotte di abbuffata e poi di eliminazione, rispettivamente: quelle di tipo ansiolitico e quelle attivanti. Il ciclo abbuffata-eliminazione ansiolitica consegue perlopiù alla necessità di diminuire l’attivazione emotiva conseguente all’esposizione sociale. Al contrario, il ciclo abbuffata-eliminazione attivante consegue al tentativo di rientrare in sé e di riattivarsi dopo una o più esperienze emotive negative disconfermanti che hanno causato una dissociazione di variabile intensità. Entrambi i “cicli bulimici” possono essere accompagnati da altri comportamenti in grado di riposizionare il soggetto nel contesto di riferimento. Il ciclo di abbuffata-eliminazione ansiolitica può essere sostituito da condotte di abuso di alcol o di psicofarmaci, soprattutto benzodiazepine, con l’obiettivo di “staccare la spina” dopo una ripetuta esposizione al giudizio. Nel secondo tipo di condotta, il bisogno di rientrare in sé dopo un momento di distacco dissociativo dal mondo, perlopiù frutto di una disgregazione identitaria dovuta alla mancanza di approvazione dell’altro, può essere realizzato attraverso l’uso di sostanze eccitanti come la cocaina o le anfetamine.
Rispetto all’anoressia, di cui spesso rappresenta un’evoluzione (Eddy et al., 2008), la fenomenologia bulimica prende forma non dalla necessità di una radicale autonomia dagli altri, ma proprio dal rapporto con gli altri o meglio da un’acuta consapevolezza delle opinioni, giudizi e valutazioni degli altri: sono gli altri a determinare il proprio valore attraverso l’approvazione o il rifiuto. Come più autori hanno indicato da tempo, la paura del rifiuto o dell’esclusione è una caratteristica essenziale della bulimia (Baumeister e Tice 1990; Gross e Rosen, 1988; Heatherton e Baumeister, 1991). Le bulimiche imparano a far fronte a questo costante timore del giudizio attraverso la manipolazione della propria attrattività fisica e della modificazione delle forme corporee, regolandone i parametri secondo le immagini alla moda. Con chiara evidenza rispetto alle anoressiche, per le bulimiche la sintonizzazione su modelli mediatici di perfezione riduce il timore del confronto fornendo un criterio di riferimento attraverso cui valutare il grado della propria desiderabilità.
L’essere sé è quindi caratterizzato da una continua ansia del giudizio altrui, attenuata però dalla focalizzazione sulla propria attrattività e quindi sulla propria silhouette. Questo grande interesse per il proprio corpo e la sua attrattività crea un complicato intreccio tra esposizione del proprio corpo e attenzione all’immagine corporea: se da un lato si cerca di essere accettati dagli altri attraverso la manipolazione della propria apparenza fisica e in questo modo quindi si amplifica l’attenzione centrata sul corpo, dall’altro un’eventuale disconferma non può che essere riferita al proprio corpo aumentando la focalizzazione negativa su di esso. Questo rapporto fra livello di esposizione e attenzione centrata sul corpo spiega come la disconferma in qualsiasi dominio, percepita dai bulimici sempre come una sconfitta personale, si trasforma sempre in una percezione negativa del proprio corpo (Arciero e Bondolfi, 2012), generando quindi un’alterazione delle proprie abitudini alimentari.
Tutto ciò viene confermato dal fatto che questo disturbo è più frequente tra le donne in carriera più esposte al confronto e alla valutazione e più preoccupate a valutare la propria performance attraverso standard elevati (Barnett, 1986). L’autrice sottolinea come, a differenza degli uomini, le donne siano cresciute credendo che il loro status potesse essere definito solo in base al partner che scelgono e allo stesso tempo la disuguaglianza economica della nostra società tra i due sessi ha sempre portato la donna a pensare di dover assumere alcune caratteristiche psicologiche quali sottomissione e passività per essere accolta e compiacere gli uomini. Secondo l’autrice questa lotta per l’auto-definizione si manifesta al meglio nella donna bulimica: dal momento in cui non si ritiene desiderabile e crede che essere grassa possa essere considerata una caratteristica non amabile dall’uomo, rimane intrappolata in un circolo vizioso del “riempirsi di cibo – sentirsi in colpa – volersi purificare”.
Per i bulimici ogni disconferma è avvertita come se fosse totale e riguardasse l’intera vita della persona, producendo un’intensa amplificazione del senso di negatività personale. Questa forma di disregolazione affettiva che aumenta a dismisura l’intensità emozionale nei bulimici e probabilmente anche la causa dell’incidenza elevata di abuso di alcol (Bulik et al., 2004) e dell’uso di sostanze stupefacenti (Wiederman e Pryor, 1996).
I pazienti bulimici tentano di gestire le emozioni collegate soprattutto agli esiti o alle aspettative di confronto (paura, timore, stress..), ma anche quelle connesse alla solitudine e quindi all’assenza di qualcuno attraverso cui definirsi. Per far fronte a queste emozioni i bulimici cercano di manipolare la propria percezione corporea attraverso le abbuffate, le condotte eliminatorie e l’intensa attività fisica.
Ricapitolando quindi alla base del disturbo vi è l’automatismo che si mette in moto a partire da una disconferma da parte dell’altro, che genera uno stato di intensa attivazione emotiva. In modo del tutto inconsapevole, questo profondo stato di malessere viene riferito alle forme del proprio corpo; a questo punto l’acuto stato emotivo negativo scatena l’ingestione incontrollata di cibo che può essere più o meno immediata rispetto all’attivazione emotiva: a questa ingestione seguono condotte di eliminazione, periodi di diete e attività fisica o una combinazione di tutte queste. Gli individui, in seguito ad un giudizio negativo o una disconferma da parte dell’altro, si abbuffano per sfuggire ad un’attivazione emotiva negativa e per potersi concentrare sulle proprie attivazioni viscerali generate dall’abbuffata e dal “sentirsi piena”. Questi processi fisiologici sembrano in un qualche modo riuscire a sedare l’intensità delle emozioni provate. Il corpo avvertito nella sua forma digestiva, diventa l’alterità sul quale centrarsi e sulla quale fondare la propria stabilità emotiva in assenza di altre alterità. Quando il processo digestivo giunge al termine, i pazienti si riprendono da quello stato di intorpidimento fisico e l’attenzione torna sul corpo nella sua dimensione di immagine e come mezzo per compiacere l’altro e attirare un’alterità a sé attraverso cui co-percepirsi. Il fatto che durante l’abbuffata il proprio corpo possa essere diventato grasso e quindi non più desiderabile risulta totalmente intollerabile da parte dei pazienti bulimici per cui attuano condotte eliminatorie che possano far tornare il proprio corpo ai livelli di desiderabilità precedenti all’abbuffata.
Il cognitivista Baumeister spiega questo processo attraverso la “Teoria della fuga” (Theory of escape) sostenendo come per sfuggire alle sensazioni negative i bulimici riducono la portata della loro attenzione al presente immediato. Ciò permetterebbe di spostare l’attenzione verso livelli base di consapevolezza e quindi di rimuovere una serie di inibizioni rispetto all’assunzione di cibo. Secondo l’autore “la persona è assorbita nel processo di assunzione di cibo tralasciando perciò di valutare correttamente il comportamento alimentare rispetto ai propri standard, norme o linee guida”, generando così un episodio bulimico senza controllo (Heatherton e Baumeister, 1991, p.95). Ciò che però non riesce a spiegare questa teoria cognitivista è il motivo per cui i pazienti bulimici debbano creare uno stato viscerale del proprio corpo per sfuggire al senso di sofferenza generato dall’attivazione emotiva in corso.
Dal punto di vista ermeneutico-fenomenologico, così come accade nell’anoressia, anche nella bulimia la relazione con il proprio corpo rappresenta il mezzo attraverso cui si determina la demarcazione dall’altro. Le condotte eliminatorie presenti nei pazienti bulimici rappresentano da un lato un modo sentirsi e allo stesso tempo per svincolarsi dall’intensa attivazione emotiva provata: durante tutti questi comportamenti il bulimico riesce ad avvertire il corpo come proprio e allo stesso tempo come altro da sé.

2.1 Rapporto tra bulimia disturbo da alimentazione incontrollata

Il disturbo da alimentazione incontrollata o binge eating disorders è un disturbo dell’alimentazione la cui caratteristica principale sono i ricorrenti episodi di abbuffate, almeno una volta a settimana per tre mesi. Le persone che soffrono di questo disturbo si abbuffano, ma non usano in modo regolare comportamenti di compenso come nella bulimia nervosa. Inoltre, non seguono una dieta e tendono a mangiare in eccesso anche al di fuori delle abbuffate, ciò spiega perché nella maggior parte dei casi sia presente una condizione di sovrappeso o di obesità.
Devlin (2003) si domanda se non si possa parlare di continuità tra la bulimia nervosa e il disturbo da alimentazione incontrollata; in particolare sembrano avere alcuni punti di sovrapposizione quando si prendono in considerazione gli individui che hanno delle crisi bulimiche e subito dopo o digiunano o svolgono un’intensa attività fisica (che quindi rientrano nel disturbo bulimico, ma senza condotte di eliminazione) e i pazienti che descrivono dei periodi più lunghi di alimentazione incontrollata alternati con settimane di diete a volte estreme (che invece rientrerebbero in una diagnosi di disturbo dell’alimentazione incontrollata).
Che cosa hanno in comune questi due disturbi:
a) le situazioni che generano gli episodi di alimentazione incontrollata (abbuffata) sono, in tutte e due i casi, spesso generate da situazioni di stress o da emozioni negative in generale (Stein et al., 2007);
b) in entrambe le sindromi sembra che l’ingestione rapida di una considerevole quantità di cibo venga spesso utilizzata per sfuggire ad un senso di sé negativo in corso;
c) se prendiamo in considerazione i pazienti con alimentazione incontrollata non obesi notiamo come, in modo molto simile alla bulimia nervosa, ci sia un forte interesse per il proprio peso e l’apparenza fisica in generale.
Per cosa differiscono:
a) la differenza maggiore si palesa al termine dell’abbuffata: da un lato i pazienti bulimici tendono a ricentrarsi su un’immagine corporea di riferimento e quindi attuano condotte eliminatorie, dall’altro i pazienti con disturbo dell’alimentazione incontrollata non usano questa tipologia di comportamenti. La non attuazione di condotte eliminatorie, dal punto di vista fenomenologico, genera due principali conseguenze: in primo luogo bisogna considerare la differenza di sensazione viscerale che è alla base del disturbo, in quanto nel disturbo dell’alimentazione incontrollata la sensazione predominante dal punto di vista corporeo è quella della sazietà e quindi molto più simile a quella degli obesi; in secondo luogo dobbiamo considerare il fortissimo senso di negatività personale (dimostrato dalla frequente associazione tra questo disturbo e la depressione) che caratterizza i soggetti con disturbo dell’alimentazione incontrollata e che si amplifica con l’aumentare con gli episodi di abbuffata: il paziente entra in un vero e proprio circolo vizioso che si auto-mantiene in cui gli episodi di abbuffata amplificano il senso di negatività personale e questo li predispone a nuovi episodi di alimentazione incontrollata.

3. Approcci teorici alla bulimia

3.1 La bulimia in una concezione psicodinamica

Nell’ottica psicodinamica l’anoressia e la bulimia sono due facce della stessa medaglia: mentre la paziente anoressica è caratterizzata da una maggior forza dell’Io e da un maggior controllo del Super-Io, alcune pazienti bulimiche possono soffrire di una generalizzata incapacità di posticipare la soddisfazione degli impulsi, a causa di un Io indebolito e di un Super-Io meno forte. L’eccessiva ingestione di cibo e le successive condotte di eliminazione non sono solitamente problemi di controllo degli impulsi isolati; generalmente coesistono con relazioni sessuali impulsive e autodistruttive e con l’abuso di molteplici sostanze.
Alcuni dati ci suggeriscono che nei pazienti affetti da bulimia nervosa potrebbero agire fattori psicodinamici: in uno studio condotto su 102 soggetti con bulimia nervosa e 204 soggetti di controllo sani (Fairburn et al., 1997), problemi tra i genitori, esperienze di abuso fisico e sessuale e autostima negativa erano tutti fattori associati con lo sviluppo della malattia. Secondo gli autori una scarsa stima di sé potrebbe favorire un disturbo dell’alimentazione distorcendo la visione che le ragazze hanno del proprio aspetto fisico. I dati empirici emersi sono poi stati confermati da Reich e Cirpka (1998) in pazienti bulimiche: i due autori hanno infatti riscontrato come le loro pazienti avessero “problemi nel dialogo emotivo con i genitori e un pattern costante di conflitti tra parti contradditorie del Sè, indubbiamente influenzato da identificazioni conflittuali con i genitori. Inoltre secondo questi autori molte pazienti bulimiche vivono una mancanza di rispetto per i propri confini e un’intrusione grossolana nella privacy, che si manifesta con abusi fisici o psicologici” (Gabbard, 2007).
Gli autori psicodinamici che hanno studiato le origini evolutive della bulimia hanno rilevato notevoli difficoltà rispetto alla separazione sia nelle pazienti che nei loro genitori. Un tema comune nella storia infantile delle pazienti bulimiche è l’assenza di un oggetto transizionale (es. copertina) che possa aiutare il bambino/la bambina a separarsi psicologicamente dalla madre (Goodsit, 1983). “Questa lotta evolutiva per separarsi può essere invece inscenata usando come oggetto transizionale il corpo (Sugarman, Kurash, 1982): l’ingestione di cibo rappresenta il desiderio di fusione simbiotica con la madre e l’espulsione di cibo un tentativo di separarsi da lei” (Gabbard, 2007).
Secondo la corrente psicodinamica i genitori delle bambine destinate a divenire bulimiche si rapportano spesso alle figlie come se queste fossero estensione di se stessi (Humphrey, Stern, 1988). Le figlie verrebbero molto spesso utilizzate come oggetti-Sè per validare il Sè del genitore: nelle famiglie bulimiche predomina una modalità molto particolare di gestire le qualità “cattive” definite come inaccettabili: i genitori di questi pazienti hanno un forte bisogno che gli alti li percepiscano come buoni e le qualità negative dei genitori verrebbero quindi proiettate nella bambina bulimica, che diviene così l’unica depositaria della “cattiveria” familiare. La bambina a questo punto, in modo del tutto inconscio, si identifica con queste proiezioni e diventa la portatrice di tutta l’avidità e impulsività della famiglia.
“In molti casi le pazienti bulimiche concretizzano i meccanismi di introiezione e proiezione delle relazioni oggettuali. L’ingestione e l’espulsione di cibo possono riflettere direttamente l’introiezione e la proiezione di introietti aggressivi o “cattivi”. In molti casi questo processo di scissione viene ulteriormente concretizzato dalla paziente.” (Gabbard, 2007).
La terapia per la bulimia consiste nel comunicare i propri desideri, bisogni e affetti in una forma simbolica, poiché il corpo della bulimica è il veicolo di divulgazione del proprio malessere, dei sintomi della malattia e dei conflitti irrisolti. Il proprio corpo non è integrato con la propria mente. La regolazione degli affetti è un meccanismo di difesa nei confronti della rappresentazione materna, non è integrata con la rappresentazione di se stessi.
Nel processo terapeutico occorre rendere i soggetti consapevoli dei propri impulsi, bisogni e sentimenti, cercando di porre riparo al senso di incapacità, alle distorsioni concettuali, all’isolamento e all’insoddisfazione che sottendono questi disturbi (Selvini Palazzoli, 1981).

3.2 La bulimia in una concezione cognitivo-comportamentale

La bulimia nervosa è un disturbo del comportamento alimentare (DCA) caratterizzato da abbuffate e da comportamenti messi in atto al fine di evitare un aumento di peso.
L’abbuffata può avere inizio come tentativo di sfuggire da emozioni spiacevoli, in seguito a un’intensa fame dovuta a precedenti restrizioni alimentari o come conseguenza di sentimenti di insoddisfazione relativi al peso, alla forma del corpo o al cibo.
Una crisi bulimica è accompagnata dalla sensazione di perdere il controllo ed è seguita da emozioni di colpa, vergogna, disgusto, così come dalla paura di ingrassare. In queste persone l’autostima e l’umore tendono ad essere fortemente condizionati dalla percezione delle proprie forme corporee e dal peso. Come se il proprio valore fosse unicamente legato alla propria capacità di controllare il proprio corpo.
Quando la emozioni spiacevoli di colpa, vergogna e disgusto si attivano in seguito a un’abbuffata, la persona si sente spinta a mettere in atto condotte di “eliminazione” quali il digiuno, il vomito, l’uso di lassativi o l’attività fisica eccessiva.
Il modello cognitivo-comportamentale proposto per i disturbi dell’alimentazione considera come principale responsabile degli atteggiamenti e dei comportamenti alimentari patologici la presenza di cognizioni (o pensieri disfunzionali) errate o distorte sul cibo e sul proprio corpo; i comportamenti come la restrizione alimentare, l’evitamento e i comportamenti di controllo del peso e del corpo, sono a loro volta dei fattori di mantenimento delle cognizioni distorte.
Per la bulimia non esiste una singola causa ma piuttosto un insieme di fattori che possiamo distinguere in: fattori predisponenti, precipitanti e di mantenimento. I fattori predisponenti sono quei fattori genetici, relazionali, psicologici, socioculturali che rendono più probabile che la persona sia predisposta a sviluppare il disturbo. Tra i fattori predisponenti troviamo:
• bassa autostima: chi soffre di bulimia tende ad avere una cattiva immagine di sé, spesso in oltre l’abbuffata ha una funzione di liberazione emotiva dalla rabbia, dalla depressione dallo stress o dall’ansia. Il vomito autoindotto viene invece messo in atto per ridurre il senso di colpa e di fallimento associato all’abbuffata. La bassa autostima è quindi accompagnata ad una difficoltà nel gestire le emozioni in modo sano.
• perfezionismo: la presenza di un certo standard rigido a cui si fa riferimento può essere un’altra caratteristica predisponente alla bulimia. Chi soffre di bulimia da un lato si ribella alle rigide regole interne attraverso l’abbuffata, dall’altro si punisce per tale ribellione attraverso il vomito.
• diete ipocaloriche: con i loro effetti nocivi le diete ipocaloriche possono predisporre la persona ad un successivo problema con il cibo.
• immagine del corpo basata sulla magrezza: l’immagine proposta spesso dai media nella nostra cultura di un corpo magro e perfetto può contribuire ad indurre un’immagine irrealistica di come il proprio corpo dovrebbe apparire. Questo può causare un senso di insoddisfazione in particolare nelle giovani donne.
• storie di traumi o abusi: la bulimia è frequentemente associata con un disturbo di personalità che si è sviluppato in seguito a traumi psicologici, fisici e sessuali. Nei casi in cui vi sia un trascorso traumatico è importante che venga trattato in psicoterapia.
I fattori precipitanti sono quei fattori stressanti implicati nell’emergere del disturbo in persone che hanno una predisposizione al problema (vedi fattori predisponenti). Tra i fattori precipitanti possiamo trovare: lutti, conflitti familiari, perdita di relazioni importanti, perdita del lavoro, cambiamenti di vita importanti.
I fattori di mantenimento sono quei fattori che contribuiscono al mantenimento del disturbo bulimico. Tra questi possiamo citare le modificazioni psicologiche e fisiche indotte dalla bulimia e le modificazioni nelle relazioni interpersonali.
L’approccio cognitivo comportamentale, ha iniziato ad occuparsi della cura della bulimia nervosa agli inizi degli anni ottanta grazie a Christopher Fairburn dell’università di Oxford. Negli anni a venire le tecniche utilizzate sono state poi riviste e ampliate.
La terapia di Fairburn di stampo cognitivo-comportamentale si basa su una teoria focalizzata sui meccanismi di mantenimento specifici della bulimia nervosa come: eccessiva importanza attribuita al peso, alla forma del corpo e al controllo dell’alimentazione nella valutazione del sé.
La terapia si concentra su 3 livelli:
– Un primo livello detto “cognitivo”, il cui obiettivo è quello di modificare le distorsioni cognitive relativamente al peso, alle forme fisiche, all’autostima, ecc…
– Un secondo livello “comportamentale”, che punta invece alla modifica delle abitudini alimentari disfunzionali (come la dieta, le restrizioni, i cibi pericolosi);
– Infine un ultimo livello “emotivo”, che si propone di educare le persone alle emozioni e alla loro espressione.
4. Possibili basi neurobiologiche nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA)
Tra le ipotesi patogenetiche proposte per i DCA, un ruolo significativo sembrano svolgere i deficit di elaborazione emozionale di informazioni sensoriali relative sia al cibo che all’immagine corporea.
Numerose sono le osservazioni che suggeriscono il coinvolgimento di circuiti emozionali nella patogenesi di queste malattie. Gli individui che soffrono di AN e BN tendono più spesso dei soggetti sani a soffrire di riduzione del tono dell’umore e di temperamento disforico e la restrizione dietetica, così come le condotte di eliminazione e le abbuffate hanno un effetto nel ridurre l’entità della alterazione del tono dell’umore.
Già questo fa pensare che vi siano interazioni tra i circuiti che mediano le emozioni e quelli che regolano i comportamenti alimentari. Per giungere e confutare tale ipotesi, a partire dagli anni ‘90 si sono succeduti diverse indagini, prima metaboliche-funzionali con l’utilizzo della SPECT e della PET, oggi prettamente funzionali con la fMRI, in cui viene analizzata l’attività cerebrale in soggetti sani e con patologie alimentari, in condizione di riposo o in risposta a specifici stimoli quali immagini, odori, sensazioni tattili, parole correlate al cibo o parole connesse alle forme del corpo, o ancora, (finalizzate allo studio della percezione dell’immagine corporea), l’immagine dei soggetti esaminati opportunamente modificati nelle dimensioni.
I soggetti esaminati nei vari studi sono soggetti sani normopeso confrontati, o meno, con pazienti perlopiù anoressici, bulimici e recentemente anche persone obese.
Alcuni studi si propongono inoltre, di stabilire specifiche diversità di genere, o ancora di delineare le differenze neurali in stato di sazietà e dopo digiuno puntando a dimostrare come al variare della motivazione a mangiare possano corrispondere correlati neurali differenti. In generale le indagini di neuroimaging funzionale mirano a dimostrare che nei pazienti con DCA vi siano alterazioni nel pattern di attivazione cerebrale rilevabili quando vengono presentati loro stimoli visivi con valenza emozionale quali, come si è detto, immagini relative al cibo (Killgore et al., 2003, Rothemund et al., 2007), parole connesse all’immagine corporea (Shirao N et al., 2003), o immagini distorte del proprio corpo (Seeger et al.,2002). Lo scopo ultimo è quello di indicare se vi siano basi di suscettibilità neurobiologica che possano essere identificati e indagati tramite indagini di neuroimaging funzionale.
Nozoe et al., in uno studio PET successivo (1995), suggerivano che pazienti
bulimiche dopo un pasto, avevano una maggiore flusso regionale cerebrale,
rispetto a soggetti sani di controllo, nelle cortecce frontale inferiore di destra e temporale sinistra.
In seguito sono stati fatti studi sicuramente più sofisticati con l’utilizzo della fMRI da parte di Uher et al. (2003), che esaminarono 26 donne con disordini alimentari (10 con la bulimia nervosa 16 con anoressia nervosa), e 19 donne sane di controllo. Durante l’esame i soggetti furono stimolati con immagini di cibo ed immagini di oggetti non commestibili (che ricalcavano nei colori e nella complessità le prime), ed una serie di altre immagini dal significato emozionale positivo e negativo. Il gruppo di controllo alla vista delle immagini di cibo, e non delle immagini neutre, presentava attività nelle cortecce prefrontale laterale sinistra, parietale sinistra, visiva bilaterale e nel cervelletto bilateralmente. Nei pazienti con AN si ha una minore attivazione occipitale alla vista del cibo rispetto ai sani. Nei soggetti con AN si hanno però attivazioni di circuiti “emotivi” a livello del cingolo anteriore e posteriore, e della corteccia orbitofrontale.
Le donne con disordini alimentari valutarono soggettivamente gli stimoli alimentari come meno piacevoli, disgustosi e minacciosi. I risultati dell’imaging funzionale alla visualizzazione dei cibi mostravano nei pazienti attivazioni nel giro cingolato anteriore e posteriore, corteccia orbitofrontale sinistra, e prefrontale laterale sinistra, nel cervelletto di destra. In particolare l’attivazione nella corteccia cingolata anteriore e nel cervelletto di destra risultarono e nei pazienti anoressici e in quelli bulimici ma l’attività nella corteccia mediale prefrontale fu sensibilmente maggiore nei bulimici mentre quella nella corteccia prefrontale laterale fu riscontrata solo nei soggetti anoressici. La corteccia prefrontale laterale sinistra, il lobulo parietale inferiore sinistro, la corteccia occipitale sinistra e il cervelletto posteriore erano significativamente ipoattive nei soggetti con disordini alimentari rispetto al gruppo di controllo. In particolare la diminuita attività nel lobo parietale inferiore e nel cervelletto era maggiore negli anoressici mentre quella nell’area prefrontale laterale era diminuita in maniera specifica nei soggetti con bulimia nervosa. Inoltre le pazienti bulimiche mostrarono minor attivazione nella corteccia frontale e prefrontale rispetto al gruppo di comparazione.
Riassumendo, il gruppo dei pazienti con disordini alimentari presentava una
maggiore attività nella corteccia orbitofrontale mediale e nella corteccia cingolata anteriore invece del lobulo parietale inferiore e del cervelletto disinistra più attivi nel gruppo sano di controllo.

4.1 Deficit di autoregolazione nelle pazienti con bulimia nervosa?
Gli episodi di abbuffate seguiti da condotte eliminatorie presenti nei pazienti affetti da bulimia nervosa (BN) potrebbero suggerire la presenza di gravi problematiche a carico dei sistemi di auto-regolazione del comportamento.
I processi di auto-regolazione comportamentale sembrerebbero controllati da aree fronto-striate e in particolare dal circuito cortico-striato-talamo-corticale, con proiezioni che partono dalla corteccia pre-frontale ventrale (PFC) e la corteccia cingolata anteriore (ACC) e arrivano ai gangli della base (Baumeister RF, Vohs KD, 2004).
Diversi studi hanno dimostrato come i pazienti affetti da Bulimia Nervosa hanno una prestazione peggiore rispetto ai controlli in compiti valutanti diverse funzioni esecutive (Lauer CJ et al., 1999): l’aumentata interferenza di alcune parole inerenti al cibo o alla forma del corpo in compiti di Stroop modificati (Jones-Chesters MH et al., 1998) riflette il loro bias attenzionale nei confronti del cibo, del peso e della forma del proprio corpo. Inoltre, i pazienti con bulimia nervosa tendono ad essere maggiormente imprecisi in compiti di “Go-NoGo”, il che ci suggerisce che possano essere più impulsivi ed avere maggiori difficoltà nell’inibizione di una risposta volontaria e quindi uno scarso funzionamento dei meccanismi di controllo attenzionale (Ferraro FR et al., 1997).
Marsh e colleghi in uno studio del 2009 hanno cercato di studiare l’attività funzionale nei circuiti neurali che sottendono ai meccanismi di autoregolazione del comportamento nelle donne con bulimia nervosa. Per verificare tali meccanismi venne utilizzata una risonanza magnetica funzionale ed un compito di incompatibilità spaziale (“Effetto Simon”) per indagare le differenze nei meccanismi di auto-controllo tra soggetti di controllo e pazienti con bulimia nervosa. L’ipotesi degli autori, basata su studi precedenti effettuati su pazienti affetti da anoressia nervosa, è che nei soggetti malati ci fosse un minor coinvolgimento dei circuiti fronto-striati rispetto ai soggetti sani e un’alterazione dell’attività cerebrale soprattutto a carico della corteccia cingolata anteriore (ACC).
I risultati hanno dimostrato come le pazienti con BN mostrano effettivamente una maggiore impulsività e commettono un numero maggiore di errori nelle prove “conflittuali” che richiedevano una maggiore capacità di autoregolazione; anche quando però non commettevano errori mostravano una minor attivazione delle aree fronto-striatali.
Infine, i pazienti con una minor attivazione nei circuiti fronto-striatali risultavano essere anche quelli più gravemente colpiti da una sintomatologia bulimica. Queste differenze di gruppo in termini di prestazioni e attivazioni delle aree cerebrali sembrerebbero dimostrare che gli individui con BN non hanno un’attivazione adeguata dei circuiti fronto-striatali e ciò potrebbe contribuire alle risposte impulsive fornite al test; inoltre, secondo gli autori, questa scarsa attivazione cerebrale sembrerebbe essere la causa di alcuni comportamenti impulsivi tipici dei pazienti bulimici quali incapacità di mangiare in modo regolare.

5. Disturbi alimentari e addiction…quale relazione?
Il gioco d’azzardo e altre forme di behavioral addiction possono sorgere in seguito a una qualche forma di alterazione dell’identità personale legate a quello che definiamo come “sentirsi corporeo”. Queste patologie in particolare prevedono la contemporanea demarcazione dall’altro e la focalizzazione sui segnali corporei.
L’aspetto che differenzia i comportamenti da dipendenza dai disturbi dell’alimentazione è il fatto che l’esperienza del proprio corpo, piuttosto che nella sua componente viscerale (senso di fame, sazietà ecc), viene a essere centrata su uno stato di grande eccitazione che viene descritto dai soggetti come euforia ed esaltazione. Queste condotte solitamente emergono in un contesto emotivo caratterizzato da solitudine, noia e situazioni di disconferma provenienti dall’esterno. Il comportamento di dipendenza quindi, che solitamente viene vissuto in modo piacevole e positivo da chi lo compie, potrebbe essere generato nel tentativo di superare affetti negativi o disconferme da parte dell’altro, così come accade nei disturbi alimentari.
“In entrambi i disturbi la relazione con il proprio corpo diventa il mezzo che regola la dialettica con l’altro, a cui corrispondere e da cui distinguersi” (Arciero e Bondolfi, 2012). L’aspetto sicuramente più interessante è che entrambe le patologie trovino la propria stabilità sintonizzandosi su fonti esterne di riferimento e che per gestire situazioni relazionali negative di disconferma generino stati viscerali, ritenuti appaganti, su cui poi polarizzarsi: questo a rafforzare l’idea che la generazione di questi stati viscerali possa servire in un certo senso a liberarsi dall’altro. La relazione tra una disconferma e le condotte attuate per generate stati viscerali positivi è ben spiegata nei casi degli acquisti compulsivi (Scherhorn et al., 1990): gli autori misero in evidenza che le emozioni negative sono la causa più frequente che precede gli “acquisti incontrollati”.
La sequenza dei comportamenti nei disturbi dell’alimentazione e nei disturbi da dipendenza sembra inoltre essere la stessa: una situazione sgradevole genera nella persona un forte desiderio ad agire, che può però non essere messo in pratica subito in base al contesto in cui si trova; se le condizioni non consentono all’individuo di passare all’atto questa tenderà ad orientare la sua attenzione verso l’anticipazione di una serie di azioni e “la distanza temporale fra la preparazione e la reale effettuazione delle azioni è caratterizzata da una crescente eccitazione che assorbe l’attenzione del soggetto attraverso la pianificazione della sequenza, riducendo progressivamente lo spettro della consapevolezza” (Arciero e Bondolfi, 2012).


BODY IMAGE
1. Body image: storia e definizione del concetto
Nella società moderna, specialmente per le donne, è presente sempre più la dicotomia relativa al vivere bene cercando di avere anche una buona apparenza. Il corpo, quindi, diventa lo strumento attraverso il quale ci si rapporta agli altri e assume il significato del successo che l’individuo ha nella vita.
Questo importante ruolo del corpo è stato recentemente oggetto d’indagine di numerosi autori che si sono occupati di cercare di dare una definizione di Body Image o immagine corporea (BI).
L’immagine corporea è un costrutto multidimensionale che si compone grazie alle percezioni e alle valutazioni che l’individuo ha in rapporto al proprio aspetto fisico.
Dal punto di vista storico il primo ad occuparsi di BI fu Paul Schilder secondo cui l’immagine del corpo non era semplicemente un costrutto cognitivo, ma anche il riflesso delle interazioni con gli altri. Il suo punto di vista, definito poi come approccio psicobiologico all’immagine corporea, evidenziava l’importanza di analizzare diversi elementi tra cui quelli psicologici, quelli neurologici e quelli legati ai contesti sociali.
La definizione che Schilder da dell’immagine corporea racchiude come idea centrale le rappresentazioni mentali. L’immagine corporea, quindi, può essere definita come la fotografia del nostro corpo che si viene a formare nella mente dell’uomo.
Gli studi di Schilder erano però legati solo a soggetti affetti da danni cerebrali, per questo il suo pensiero fu fortemente criticato, in quanto prendeva in analisi una categoria troppo ristretta di soggetti.
L’immagine corporea fu in seguito definita da Slade come la rappresentazione soggettiva che ogni persona ha del proprio corpo, includendo aspetti quali forma, dimensione e taglia del nostro corpo, oltre ai sentimenti ad esso legati.
Le componenti che danno vita all’immagine corporea sono quindi di quattro tipi:
1. Componente percettiva, ad esempio come la persona visualizza la taglia e la forma del proprio corpo;
2. Componente attitudinale, ovvero cosa pensa la persona del proprio corpo
3. Componente affettiva, legata ai sentimenti verso il corpo;
4. Componente comportamentale, come ad esempio il tipo di alimentazione o la frequenza dell’attività fisica.
Secondo Slade prendere in considerazione tutte queste diverse componenti permetteva la comprensione della persona nella sua globalità e in tutti gli aspetti del suo essere.
Nel campo dei contributi alla definizione dell’immagine corporea è da citare lo psicoanalista Seymour Fisher che pubblicò insieme al collega Sidney Cleveland il testo “Body Image and Personality” nel 1958.
Il nucleo centrale del testo è legato al concetto di “schema corporeo” inteso come un meccanismo neurale passibile di modifica sulla base della postura e del movimento. Anche questa definizione risultava però riduttiva e riportava all’idea dell’essere umano come qualcosa di meccanicistico.
Fu a partire dal 1990 che si assistì ad un cambiamento radicale di pensiero e gli psicologi che si occupavano del tema iniziarono a discostarsi sempre più dalla prospettiva psicodinamica. Questi anni rappresentano un periodo molto produttivo dal punto di vista dello sviluppo del concetto di BI e dei trattamenti ad esso legati.
E’ proprio in questi anni che Thomas Cash pubblica il suo testo “Body Images: Development, Deviance, and Change” in cui viene data maggiore importanza all’aspetto multidimensionale dell’immagine corporea.
A partire dalla pubblicazione di questo testo viene a formarsi una definizione del concetto legata principalmente all’esperienza dell’essere incarnato, che è profondamente influenzata dalla storia di vita della persona.
La definizione può risultare riduttiva, ma come sottolinea Cash nel suo testo, il problema di definire in maniera più lineare questo concetto è legato alla difficoltà di terminologia che ha portato i diversi studiosi che se ne sono occupati ad utilizzare il termine “body image” per descrivere concetti differenti.
Secondo Cash l’esperienza che le persone fanno del proprio corpo e, in modo particolare, le caratteristiche fisiche apparenti rappresentano al meglio ciò che s’intende per BI.
L’autore individua due diverse dimensioni che sono necessarie alla formazione dell’immagine corporea:
• la valutazione dell’apparenza, in cui è prevalente la componente emotiva e fa riferimento al piacere/non piacere o alla soddisfazione/insoddisfazione rispetto alla propria apparenza. Riguarda la soddisfazione o insoddisfazione per il proprio aspetto fisico e ideali estetici interiorizzati.
• L’investimento sull’immagine corporea, in cui è maggiore l’aspetto cognitivo comportamentale che permette un’analisi delle cure, dei comportamenti e delle attenzioni rivolti al corpo. (Cash e Smolak, 2011).
L’innovazione portata da Cash rispetto alla definizione del concetto dell’immagine corporea, resta comunque limitata.
Ciò che va sottolineato è che l’esperienza dell’essere incarnato e conseguentemente del sentire il proprio corpo fa parte della nostra identità e si sviluppa a partire dal continuo incontro con l’altro.
In concomitanza all’interesse per l’immagine corporea si sviluppa quello legato al tema dell’insoddisfazione corporea che è data dalla discrepanza tra la percezione che una persona ha del proprio corpo e il suo ideale di corpo. (Halliwell e Dittmar, 2006). Questa, secondo Cash, può portare ad un sentimento negativo verso se stessi e a comportamenti nocivi per la propria salute (Cash e Pruzinsky, 2002). Inoltre risulta essere uno dei fattori di rischio per l’insorgenza dei disturbi alimentari.
Riassumendo, attualmente non esiste una definizione precisa di ciò che si intende quando si parla di Body Image e di conseguenza i diversi approcci psicologici utilizzano una modalità di interpretazione che varia a seconda delle proprie basi teoriche.
Certamente l’interesse sul tema porterà nei prossimi anni a nuove indagini e studi, che sono necessari al fine di definire in modo più concreto e preciso questo costrutto.
2. Teorie sull’immagine corporea
Il problema dello sviluppo e dell’elaborazione dell’esperienza corporea è un tema che è stato affrontato da ottiche diverse. Tra i principali approcci sono da ritenersi maggiormente rilevanti ai fini dell’attuale definizione dell’immagine del corpo quella psicodinamica, la cognitivo-comportamentale, la prospettiva informativo-processionale e il punto di vista femminista.

2.1. La prospettiva psicodinamica

Secondo l’approccio psicodinamico il corpo e le sue rappresentazioni mentali costituiscono le basi per una corretta formazione del senso del sé. Un concetto fondamentale è quello dell’io corporeo con cui si fa riferimento all’interazione tra l’esperienza psichica di sensazione corporea, al funzionamento del corpo e all’immagine corporea. Mentre le prime due componenti riguardano idee che provengono dalla nostra immaginazione, è attraverso il corpo che sperimentiamo la nostra vita.
L’io corporeo può essere concettualizzato in tre stadi:
• Una prima esperienza psichica del corpo attraverso la quale i bambini imparano a separare il proprio corpo dall’ambiente circostante.
• Una prima consapevolezza di immagine corporea che integri l’esperienza esterna e interna delineando i confini tra il corpo del bambino e i suoi stati interni.
• L’integrazione dell’io corporeo come contenitore dell’io psicologico, per dare forma all’identità.
Quando l’immagine corporea non può essere integrata nell’esperienza corporea, il corpo viene mantenuto in primo piano attraverso diverse modalità quali il dolore, la malattia fisica, l’uso eccessivo di sostanze o di attività fisiche.

2.2. La prospettiva cognitivo-comportamentale

Il punto di vista cognitivo-comportamentale trova in Thomas Cash il suo massimo esponente. Secondo l’autore gli elementi che regolano lo sviluppo dell’immagine corporea si possono suddividere in: fattori storici e fattori prossimali.
I primi fanno riferimento alle esperienze passate che predispongono il modo in cui le persone formano un pensiero e agiscono sul proprio corpo. Rientrano in questo gruppo elementi quali: la socializzazione culturale, le esperienze interpersonali, le caratteristiche fisiche e gli attributi di personalità.
I fattori prossimali fanno riferimento agli eventi presenti e includono l’elaborazione degli schemi relativi all’apparenza, i dialoghi interni, le emozioni dell’immagine corporea i comportamenti adattivi ed auto-regolatori.

2.3. La prospettiva informativo-processazionale

In questo approccio, l’immagine del corpo è stata studiata in correlazione ai disturbi alimentari e viene vista come un bias cognitivo derivante da uno schema che include le memorie legate all’atto di mangiare e quelle legate alla forma corporea. Il modello afferma che questo schema di sé porta l’attenzione della persona verso il proprio corpo e verso gli stimoli legati al cibo. Il bias che si va a creare è inconscio e il soggetto fa esperienza di quella condizione come qualcosa di reale.
Vengono inoltre individuate alcune categorie di persone che sono maggiormente suscettibili al bias in quanto mostrano caratteristiche quali, ad esempio, la paura di ingrassare, un’esagerata preoccupazione per la propria forma fisica, la tendenza al perfezionismo e la presenza di ossessioni.
In base a questo modello, si viene a costituire un circolo secondo cui i bias cognitivi incrementano nella persona l’emozione negativa che a sua volta interagisce con lo schema del sé aumentando la probabilità che vengano generati nuovi bias cognitivi. La persona fa una costante esperienza di angoscia legata alle informazioni circa il proprio corpo, angoscia che si può trasformare in un’ossessione vera e propria.

2.4. La prospettiva femminista
Il nucleo centrale di questa prospettiva si basa sull’idea che l’insoddisfazione corporea che sperimentano le donne sia legata ad un fenomeno sistematico sociale. Ciò che si enfatizza quindi, è l’importante ruolo del contesto sociale nella formazione di una immagine corporea distorta. L’esperienza corporea negativa che le donne riportano si spiega alla luce di un contesto sociale in cui sono considerate come oggetti da guardare e gli standard corporei ad esse legati sono irraggiungibili.
Questa concezione femminista ha avuto un grande impatto sulla ricerca psicologica nel campo dell’immagine corporea e numerosi sono stati gli autori che hanno fatto capo a queste basi teoriche al fine di spiegare il legame tra lo sviluppo di un disturbo alimentare e la Body Image.


3. Un approccio scientifico per i disturbi della Body Image
L’aumento dell’interesse per la Body Image legato all’incremento di persone che lamentavano disturbi dell’immagine corporea ha portato diversi studiosi a proporre strategie e trattamenti specifichi. Tra i trattamenti di prima qualità rientra la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT). Nel 1987 Cash e Butters hanno pubblicato uno studio in cui 15 donne insoddisfatte del proprio corpo sono state sottoposte a CBT individuale per sei settimane. A queste donne sono state insegnate pratiche di auto controllo, di rilassamento, di risposta razionale alle distorsioni cognitive e strategie per prevenire eventuali ricadute; al termine del trattamento queste donne risultarono più soddisfatte della loro apparenza valutando in modo più positivo il proprio aspetto. Questa ricerca ha dato l’avvio all’applicazione di terapie cognitive-comportamentali nella cura dei disturbi alimentari, portando a diversi contributi in letteratura relativi all’efficacia delle stesse.
Qui riporteremo due interventi tra i più rilevanti, di cui un primo molto utilizzato soprattutto negli Stati Uniti e con prove di evidenza scientifica, e un secondo di recente sviluppo a cui non sono ancora legati studi di efficacia.
Nel 2008 Cash pubblica un manuale intitolato “The Body image workbook. Second edition” con lo scopo di fornire un approccio strutturato e scientifico per il miglioramento dei disturbi di BI. Considerato il ruolo che l’apparenza fisica ha sulla qualità di vita delle persone, Cash ha proposto un intervento cognitivo-comportamentale traducendo le conoscenze scientifiche in conoscenze comprensibili alla popolazione per poter aiutare le persone a vivere più felicemente.
L’efficacia dell’intervento proposto da Cash è stata testata in trial clinici con un evidenza legata ad un miglioramento significativo di come le persone si sentono rispetto alla loro apparenza fisica. L’uso di questo intervento sembra inoltre migliorare il senso di sé e le relazioni sociali, oltre che ridurre la percentuale di possibilità di sviluppo di un disturbo alimentare. Il manuale è composto da una parte teorica e da numerose schede o protocolli che il terapeuta o la persona stessa può utilizzare per lavorare sui diversi step proposti.
L’intervento si suddivide in 9 passaggi che hanno lo scopo di guidare il lettore nel viaggio del BI e sono:
1. scoprire la propria immagine corporea in termini di punti di forza e punti di debolezza;
2. comprendere le origini della storia della propria immagine corporea attraverso un’analisi delle diverse esperienze di vita. Lo scopo di questo passaggio è di individuare le cause che hanno portato ad un’immagine del proprio corpo non soddisfacente;
3. accettare la propria esperienza del corpo nel “qui e ora” attraverso tecniche di mindfulness;
4. guardare attraverso la superfice del proprio corpo con lo scopo di cambiare la propria mente;
5. modificare i propri errori mentali attraverso la conoscenza di otto principali distorsioni corporee che possono distruggere l’immagine corporea;
6. affrontare la propria immagine corporea imparando ad comprendere ed eventualmente eliminare comportamenti errati;
7. cancellare i rituali legati alla propria immagine del corpo ovvero quelle abitudini compulsive che prolungate nel tempo portato alla costruzione di un’immagine del corpo negativa;
8. trattare bene il proprio corpo attraverso strategie per migliorare la relazione con il proprio corpo;
9. mantenere la nuova immagine positiva del corpo per prolungare i benefici del trattamento e mantenere una buona qualità di vita.
Il manuale nella sua seconda edizione cerca di raccogliere tutte le novità scientifiche derivate dalle nuove conoscenze rispetto all’immagine corporea e dai nuovi approcci cognitivi-comportamentali.
Nella pratica clinica sono in aumento le persone che giungono allo psicoterapeuta perché si sentono a disagio rispetto al proprio aspetto fisico, siano esse adolescenti o adulti, maschi o femmine (Kostanski & Gullone, 2003). Molti presentano in concomitanza un tono dell’umore depresso e stati di ansia tali da rendere difficile la vita quotidiana.
Nel 2014 è nata quindi una tecnica il cui assunto di base è legato alla multidimensionalità del costrutto della BI. Questa tecnica prende il nome di Terapia Modulare dell’immagine Corporea o Body Image Modular Therapy (BIMT- Mian, E., 2014). Questa strategia d’intervento è in parte mutuata dalla psicoterapia cognitivo-comportamentale per il dismorfismo corporeo (Wilhelm, Phillips & Steketee, 2013); è flessibile e personalizzabile al fine di affrontare le diverse sfaccettature riportate dall’individuo.
La terapia si compone di 16 diversi moduli che non necessariamente devono seguire una sequenza predefinita. Questo permette di concentrarsi sul “qui e ora” per meglio aderire alla storia di vita del paziente.
Attualmente non sono disponibili in letteratura studi relativi all’efficacia di questo trattamento nei disturbi dell’immagine corporea diversi dal dismorfismo corporeo di conseguenza il suo utilizzo rimane strettamente legato ai terapisti con approccio cognitivo-comportamentale.
4. Body image e bulimia nervosa: quali implicazioni?
Solo negli ultimi anni psicologi e psichiatri si sono interessati al ruolo della BI nello sviluppo dei disturbi alimentari con un maggior interesse nella fascia delle giovani donne. Questo ha fatto sì che l’attenzione fosse centrata in modo particolare sul corpo come oggetto perdendo di vista l’uomo come essere incarnato in continua relazione con il mondo. Attualmente non si è giunti ad un accordo sul significato di “immagine corporea negativa” ma si tende a pensare che con questo termine ci si riferisca ad una forte insoddisfazione per alcuni aspetti della propria apparenza fisica (Cash, 2011). Chi presenta un’immagine negativa del proprio corpo si sentirà maggiormente preoccupato nelle situazioni sociali, durante le quali si aspetta di essere attentamente scrutato dalle altre persone e questo genera ansia, imbarazzo e vergogna perché la persona teme che il suo aspetto fisico possa rivelare agli altri alcune sue inadeguatezze personali.
Nel 2001 Stice affermò che il disturbo dell’immagine corporea è considerato uno dei più potenti fattori di rischio per lo sviluppo e il mantenimento della bulimia nervosa. Secondo un approccio cognitivo-comportamentale sono due i meccanismi attraverso i quali un disturbo dell’immagine corporea può portare all’insorgenza della bulimia. In primo luogo si ritiene che l’uso di diete molto restrittive sia legato alla relazione tra l’insoddisfazione corporea e la distorsione percettiva del proprio corpo dando vita al ciclo abbuffata-comportamento compensatorio.
Il secondo meccanismo, invece, sarebbe collegato ad una regolazione emotiva negativa che provoca un sentimento di insoddisfazione tale da dar vita all’abbuffata come fonte di “conforto” rispetto alle emozioni che la persona sente.
Accettare l’idea di una rappresentazione mentale del proprio corpo non permette però di spiegare l’elevato numero di persone che riescono a “guarire” dal disturbo alimentare ma che continuano ad lamentare un problema di immagine corporea. La maggior parte delle terapie utilizzate nel campo dei disturbi alimentari è di stampo cognitivo-comportamentale e ha tra gli obiettivi del trattamento un lavoro specifico sull’immagine corporea che ognuno ha di se stesso nella propria mente.
Ad oggi non si è giunti ad una totale comprensione di quale possa essere il rapporto tra la Body Image e lo sviluppo di un disturbo alimentare quale la bulimia.
L’attenzione che è stata posta negli anni recenti ai disturbi dell’alimentazione ha fatto perdere di vista i diversi modi di fare esperienza del corpo; si pensi ad esempio a disturbi fisici acquisiti, come un ustione, al loro trattamento e a quanto essi possano portare a grosse modificazioni nell’esperienza che la persona fa del proprio corpo.
Inoltre, la centratura sull’immagine corporea intesa come rappresentazione o schema mentale ha fatto sì che non venissero considerati una serie di aspetti fondamentali, quali ad esempio le relazioni con l’altro e l’esperienza del ri-conoscersi nell’altro.

5. Il ruolo del corpo nella prospettiva fenomenologica
Come riportato nei precedenti paragrafi, il corpo è stato oggetto nel corso degli ultimi decenni di un rinnovato interesse da parte della filosofia, dell’antropologia, della sociologia, della psicologia e della pedagogia.
I vari punti di vista hanno avuto il merito di mettere in luce la complessa e articolata dimensione corporea e la necessità di assumere nei confronti del corpo un approccio diverso dalla concezione ormai insostenibile che per secoli lo ha considerato in termini meccanicistici, separato dalla mente.
Principale spinta verso una nuova e diversa prospettiva del corpo quale oggetto di studio tramite la conoscenza del mondo è dovuta alla fenomenologia e in particolare alla corrente nota come “fenomenologia della percezione” del filosofo francese Merleau-Ponty.
La fenomenologia è una disciplina che ha tra i suoi principali obiettivi l’analisi dell’esperienza attraverso una nuova definizione del rapporto tra natura e coscienza dell’uomo.
L’interesse verso l’esperienza che l’uomo fa non ha potuto discostarsi dal tema del corpo in quanto “strumento” attraverso il quale l’uomo fa esperienza.
Il tema del corpo viene affrontato nel pensiero maturo di Husserl in cui il filosofo pone l’accento su due concetti categoriali ben distinti: l’interno-esterno e il concreto-astratto. All’interno di queste due dicotomie, però, il corpo si pone come un problema in quanto è sia interno nella propria consapevolezza, che esterno rispetto all’uomo nell’ambiente. Fu proprio Husserl ad utilizzare per primo il termine “corpo vivo”, nonostante il suo pensiero rispetto al corpo e al suo coinvolgimento nelle relazioni con il mondo fosse legato al ruolo che questo aveva nella percezione e nell’azione.
Il termine corpo vivo deriva dal termine tedesco Leib che viene utilizzato per intendere il corpo che vive. A questo termine si contrappone quello di Korper utilizzato con il significato di corpo inanimato. Per Husserl il corpo vivo è il corpo nella vita.
Con Merleau-Ponty avvenne un cambio radicale di prospettiva, in quanto la sua attenzione fu spostata sul ruolo dell’essere incarnato mediato dal corpo.
Nella sua opera la Fenomenologia della percezione egli cerca di dimostrare come il rapporto dell’essere umano con il mondo sia in relazione alla percezione. E’ proprio partendo dallo studio della percezione che Merleau-Ponty giunge alla conclusione che il corpo non è solo una cosa che può essere oggetto di studio della scienza, ma è anche la condizione necessaria affinché esista l’esperienza. Attraverso il corpo si costituisce l’apertura percettiva al mondo, esso diventa il veicolo stesso dell’essere al mondo.
In quest’ottica la percezione assume un ruolo attivo e costitutivo in quanto apre la strada al primato dell’esperienza. Secondo il filosofo, quindi, ogni percezione esterna è sinonimo di una percezione del proprio corpo così come ogni percezione del proprio corpo si esplicita nel linguaggio della percezione esterna.
La novità apportata da Merleau-Ponty fu quella di spostare l’attenzione dal corpo materiale al corpo vivo nel suo costante dialogo con il mondo. Secondo il filosofo è grazie al corpo che l’essere può aprirsi al mondo in modo unico.
Il tema dell’embodiment fece crescere nel filosofo domande relative alla dicotomia mente-corpo che da sempre è stata oggetto di riflessioni filosofiche. Merleau-Ponty non mise mai in dubbio l’esistenza di “fenomeni mentali” ma sottolineò come “l’essere nel mondo” potesse diventare comprensibile solo alla luce del corpo vivo.
Anche per Heidegger il corpo vivo è l’aspetto su cui porre l’accento. In un passaggio dei “Corsi su Nietzsche” Heidegger riflette sul corpo attraverso queste parole:
“il sentimento in quanto sentirsi, è proprio il modo nel quale noi siamo un corpo; essere un corpo non significa che a un’anima venga attaccata in più una zavorra chiamata corpo, ma, nel sentirci, il corpo è incluso fin da principio nella nostra identità, e precisamente in modo che esso, nel suo essere in uno stato ci permea. […] Noi non <<abbiamo>> un corpo, ma <<siamo>> corpi. Dell’essenza di questo essere fa parte il sentimento come sentirsi. Il sentimento opera fin da principio l’inclusione che mantiene il corpo nel nostro esserci.”
Nella prospettiva fenomenologica, il corpo può diventare lo strumento attraverso il quale si regola la relazione tra la demarcazione e la contemporanea definizione di sé, caratteristiche dell’esistenza. In alcuni casi può accadere che le dinamiche relazionali con l’altro si giochino sul corpo facendo sì che sia esso stesso il mezzo attraverso il quale accedere all’altro. E’ attraverso le situazioni emotive che l’uomo fa esperienza del corpo.
Il senso di stabilità e l’identità personale di ogni singola persona sono date dal RI-CONOSCERSI nel confronto con gli altri.
Se l’essere umano è da sempre nell’incontro con l’altro, va da se che, qualora l’altro venisse a mancare si andrebbe incontro ad una perdita di se stessi. Essere a partire dall’incontro con l’altro, non comporta l’esistenza di un IO e di un ALTRO distinti, ma significa che l’uomo si emoziona e si progetta a partire dall’altro.
Nell’ottica fenomenologia il corpo è l’alterità primaria attraverso il quale l’uomo si confronta per “sentirsi se stesso”.


Disturbi alimentari nel sesso maschile (???)
I disturbi del comportamento alimentare si sono caratterizzati come patologie del femminile e nonostante l’aumento nella popolazione maschile di questi sintomi, sono pochissime le pubblicazioni che indagano questo tema.
L’esclusione dell’uomo dagli studi empirici ha portato ad “una povertà di conoscenze rispetto ai pattern alimentari degli uomini e alla loro immagine corporea” (Ousley, Cordero & White, 2008).
Il primo caso di maschile di anoressia fu descritto da Morton nel 1689, a cui però seguì un prolungato silenzio; fu Bruch a descrivere successivamente i disturbi alimentari maschili, definiti come “atipici”, sostenendo l’assenza di differenze significative dei casi femminili, sia per fenomenologia clinica, sia per eziopatogenesi.
Da sottolineare inoltre che le ricerche in letteratura hanno utilizzato una testistica basata sulle donne per valutare i disturbi del comportamento alimentare maschile e questo può aver portato ad una maggiore difficoltà di inquadramento diagnostico del disturbo.
Il risultato del limitato numero di studi empirici ha portato ad una mancanza, in ambito clinico, di criteri diagnostici utili per poter identificare i disturbi del comportamento alimentare maschile.
Circa il 10% dei disturbi alimentari diagnosticati è rappresentato da individui di sesso maschile. In termini di distribuzione diagnostica però le percentuali non si discostano molto dal mondo femminile: la prevalenza della bulimia sembra essere circa 5-10 volte maggiore rispetto all’anoressia nervosa.
A questo punto alcune domande sorgono spontanee: si ammalano più persone o solamente più uomini si rivolgono allo psicologo per una richiesta di auito? Inizia ad esserci una maggiore attenzione da parte dei clinici su questa patologia che prima era lasciata in secondo piano?
A queste domande non è ancora possibile dare una risposta chiara ed univoca, in quanto le variabili sociali, culturali che possono aver portato a questo aumento di “casi” sono molteplici.
Quando si esaminano i disturbi alimentari nel sesso maschile bisogna prendere in considerazione diversi aspetti:
a) storia del peso: gli uomini tendenzialmente sono stati obesi per un certo periodo della loro vita prima di sviluppare un disturbo alimentare; questo sembra essere diverso per le donne che, pur manifestando una certa preoccupazione per la loro forma fisica, avevano nella loro storia clinica un peso nella norma (Andersen, 1999); inoltre molto spesso gli uomini utilizzano comportamenti compensatori come l’esercizio fisico per ridurre la possibilità di sviluppare complicazioni mediche che già i loro padri avevano sviluppato, mentre le donne utilizzano questi comportamenti per raggiungere un ideale di magrezza (Andersen, 1999);
b) abusi sessuali e altri traumi: una revisione della letteratura sulla correlazione tra abuso sessuale e disordini alimentari ha rivelato che il 30% dei pazienti con disordini alimentari aveva una storia di abusi sessuali (Connors e Worse, 1993);
c) orientamento sessuale: la maggior parte degli uomini affetti da disturbi alimentari possa essere omosessuale o bisessuale; in questo ambito uno dei più famosi studi risale al 1997 (Carlat, Camargo e Herzog, 1997) che cercarono di comprendere al meglio l’eziologia, le caratteristiche cliniche e la prognosi dei disturbi alimentare nei maschi. Per fare ciò presero in esame le cartelle cliniche di tutti i maschi che erano stati trattati per disturbi alimentare dal 1980 al 1994 nel “Massachusetts General Hospital”: identificarono 135 maschi con disturbi alimentari di cui quasi il 50% soffriva di bulimia nervosa; successivamente venne valutato l’orientamento sessuale e rilevarono come circa il 40% dei pazienti bulimici fosse omosessuale o bisessuale. Gli autori stabilirono quindi che l’orientamento sessuale potesse essere definito come un fattore di rischio specifico per i maschi ed in particolare per coloro affetti da bulimia nervosa. Tuttavia ci sono sottoculture all’interno della cultura gay nelle quali non si manifestano tali problematiche. Inoltre altre femmine eterosessuali lottano con le preoccupazioni per l’immagine del corpo molto di più rispetto ai maschi gay. Quindi essere un maschio gay non è, di per sé, predittivo per lo sviluppo di un disturbo alimentare o una dismorfia muscolare; tuttavia l’omosessualità è un indice predittivo per un maschio di essere più a rischio di sviluppare un disturbo (Morgan, 2008).
d) depressione e vergogna: i maschi che manifestano un disturbo alimentare spesso sono affetti anche da depressione e provano un certo grado di vergogna per la loro sintomatologia. La paura di essere stigmatizzati potrebbe portare l’uomo a nascondere i propri sintomi e le proprie difficoltà per il timore di essere considerati “eccessivamente femminili”.
e) comorbidità psichiatrica: gli uomini presentano un’alta comorbidità con disturbi psichiatrici quali disturbi dell’umore, disturbi depressivi, disturbo ossessivo rispetto alle donne (Dalla Ragione, Scoppetta, 2009).
Partendo dai dati epidemiologici considerati in precedenza potrebbe essere utile cercare di capire in primo luogo come ci possa essere una equa distribuzione in termini prevalenza di un disturbo piuttosto che di un altro tra donne e uomini; inoltre come si possono spiegare le differenze tra i due sessi in termini di prevalenza dei disturbi alimentari?
Per quanto riguarda la diversità di prevalenza fra i sessi si potrebbe ipotizzare che i maschi svilupperebbero un disturbo con caratteristiche eziologiche simili a quelle femminili, ma con una sintomatologia molto differente.
Rispetto alla distinzione tra i due sessi, nell’ICD-10 viene posta l’attenzione a ciò con l’introduzione di “.. un disturbo endocrino diffuso, che coinvolge l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, che si manifesta nella donna come amenorrea e nell’uomo come perdita dell’interesse e della potenza sessuale.” Partendo da questo punto sembrerebbe quindi che ad eccezione dell’amenorrea, i criteri diagnostici per i disturbi alimentaria siano uguali per entrambi i sessi. Questa concezione può risultare riduttiva se si considera la vasta gamma di diverse esperienze, relazioni, e modi di essere nel mondo che l’uomo e la donna hanno.
Ne “I Giganti d’argilla”, Laura Dalla Ragione e Marta Scoppetta, individuano le seguenti caratteristiche principali nei disturbi alimentari maschili:
a) Preoccupazione focalizzata sulla muscolarità e sulla prestanza fisica;
b) L’iperattività fisica è la condotta di “eliminazione” più utilizzata;
c) La bulimia nervosa è più frequente rispetto agli altri disturbi alimentari;
d) È presente una minore tendenza a richiedere aiuto agli specialisti a seguito della convinzione che si tratti di un disturbo a prevalenza femminile.
La maggior parte degli studi effettuati sugli uomini ha focalizzato la propria attenzione sull’insoddisfazione della propria immagine fisica, spostando però l’attenzione su un aspetto molto diverso rispetto al mondo femminile: la muscolarità. A differenza del mondo femminile gli uomini sembrano essere maggiormente concentrati sulla forma fisica in generale e tendono a cercare un aumento di peso relativo però ad aumento della massa muscolare. Nel processo di aumento della massa muscolare possono essere identificate due tipologie di disturbo:
a) dismorfia muscolare: è caratterizzata dalla persistente preoccupazione per la propria muscolatura. Questa patologia risulta molto più affine all’anoressia nervosa femminile in quanto in entrambi i casi non sembra esserci un’alterazione dell’immagine corporea e se nell’anoressia per comprenderla dobbiamo partire dall’esperienza corporea della fame, nel caso della dismorfia l’essere se stessi corrisponde ad una continua esperienza muscolare.
b) uso di steroidi androgeni anabolizzanti: questa patologia risulta affine alla bulimia nervosa femminile per il forte interesse che c’è verso l’apparenza fisica e alla propria immagine corporea. L’utilizzo di steroidi nei maschi, soprattutto adolescenti, avrebbe il solo scopo di migliorare la loro apparenza e renderli quindi maggiormente attraenti dal punto di vista fisico; il profilo dell’adolescente che utilizza steroidi anabolizzanti per migliorare il proprio aspetto è molto simile alle pazienti bulimiche: bassa autostima e affetti negativi (Ricciardelli e McCabe, 2001), ma anche alti livelli di comportamento impulsivo. Molto similmente a quanto fanno le pazienti bulimiche, l’utilizzo di steroidi e quindi il miglioramento della propria immagine corporea potrebbe essere legato alla manipolazione dell’attrattività fisica e per ridurre il timore del confronto e del giudizio negativo: anche in questo caso il problema sembrerebbe ruotare attorno al timore della conferma/disconferma altrui. Le analogie con la bulimia nervosa in realtà si fermano a questi aspetti perché non sappiamo come possa reagire a emozioni negative o se attui anche comportamenti compensatori un soggetto che utilizza steroidi anabolizzanti; sappiamo sicuramente che gli studi in merito sono ancora poco numerosi per cui è ancora prematuro ipotizzare o parlare di un rapporto tra uso di steroidi, regolazione emozionale ed esercizio fisico.
Le ricerche, ad oggi, indicano che nell’individuo di sesso maschile le preoccupazioni per l’immagine corporea sono molto diverse da quelle femminili. Gli studi dimostrano che i maschi non hanno solitamente un ideale specifico di magrezza, quanto piuttosto un desiderio di aumentare di peso in termini di un incremento della massa muscolare.
Gli studi dimostrano inoltre che gli uomini hanno meno probabilità rispetto alle donne di assumere comportamenti “tipici” di compenso bulimico, come vomito o abuso di lassativi, mentre tendono ad usare maggiormente l’esercizio fisico eccessivo come metodo di compensazione per il controllo del peso e della forma del corpo. Gli uomini sembrano inoltre riportare una minor perdita di controllo durante le abbuffate rispetto alle donne.
Un ultimo aspetto da considerare è legato alla difficoltà di valutare i disturbi alimentari nell’uomo. Come riportato sopra infatti, le misure testistiche che sono state utilizzate nei limitati studi presenti in letteratura sono le medesime utilizzate nelle donne. Questo di certo limita la possibilità di cogliere tutti i diversi aspetti e le caratteristiche che danno luce ad un disturbo alimentare maschile.
Stanford e Lemberg, hanno pubblicato nel 2012 uno studio in cui hanno misurato l’efficacia dell’EDAM (Eating Disorder in Men) in un campione di 108 soggetti. Il test si compone di 95 item che riguardano le seguenti aree di indagine: peso, pensieri sul cibo, esercizio fisico, interesse verso l’immagine corporea, abitudini alimentari sregolate. I risultati dello studio evidenziano come questo tipo di misura possa essere un valido strumento per l’indagine dei comportamenti alimentari disfunzionali nell’uomo, ma sottolinea anche come siano necessarie numerose altre indagini con campioni più vasti e vari.

Bodybuilders e bulimia nervosa
Diversi studi hanno dimostrato che i bodybuilders maschi mostrano un maggior livello di insoddisfazione per il proprio corpo (Klein AM. et al., 1987), per il proprio peso e per la propria forma fisica (Andersen RE. et al., 1995); adottano inoltre condotte malsane quali diete restrittive e utilizzo di steroidi anabolizzanti (Blouin AG. et al., 1995).
Gli studi che tentano di confrontare i bodybuilders agonistici con pazienti affetti da disordini alimentari sono però poco numerosi. Tra i più famosi citiamo il lavoro di Davis e Robertson (2000) che tentarono di confrontare i bodybuilders agonistici con pazienti anoressiche: i risultati mostrarono che questi due gruppi avevano entrambi alti livelli di perfezionismo, ossessività, anedonia e narcisismo; diversamente però dalle pazienti anoressiche i bodybuiders riportavano un’autostima più alta e una miglior percezione della propria immagine corporea.
Di più recente pubblicazione è lo studio di Goldfield e colleghi (2006) che ha tentato di confrontare gli aspetti psicologici, comportamentali e gli atteggiamenti alimentari di 3 diversi gruppi: maschi affetti da bulimia nervosa (MBN), bodybuilders agonistici (CMBB) e individui che svolgono bodybuilding in modo dilettantistico (RMBB). In particolare, per quanto riguarda i comportamenti alimentari, gli autori si sono preoccupati di indagare le diete, le abbuffate e i comportamenti compensatori attuati per prevenire l’aumento di peso. L’ipotesi da cui sono partiti gli autori è quella per cui i bodybuilders competitivi potrebbero mostrare una maggior insoddisfazione per il proprio aspetto fisico e un maggior numero di pratiche per il controllo del peso rispetto ai RMBB, ma inferiore ai maschi affetti da bulimia nervosa. L’ipotesi degli autori è stata parzialmente confermata dai risultati in quanto si sono evidenziate poche differenze tra il gruppo dei pazienti bulimici e dei bodybuilders competitivi. Sicuramente la ricerca più sorprendente di questo studio è relativa al fatto che circa il 30% dei CMBB aveva manifestato una sintomatologia bulimica, mentre nel gruppo dei bodybuilders non competitivi la percentuale scendeva all’8%.
Per quanto riguarda i sentimenti provati dopo gli episodi di abbuffata, gli autori evidenziarono come il gruppo dei bodybuilders competitivi mostrava reazioni molto simili a pazienti bulimici, soprattutto in termini di rabbia relativa al proprio comportamento, mentre tali reazioni risultavano molto più rare nei soggetti RMBB. Altro aspetto molto interessante è relativo al fatto che non sono state trovate differenze significative tra i 3 gruppi per quanto riguarda la preoccupazione di aver mangiato troppo e quindi essere ingrassato, l’eccessiva attenzione nei confronti del peso e della forma fisica e per il fatto che il proprio aspetto è considerato importante tanto quanto il lavoro e gli amici.
Un’ulteriore somiglianza tra maschi bulimici e bodybuilders competitivi è relativa al fatto che entrambi i gruppi hanno messo in pratica diete rigorose, esercizi intensi o hanno fatto uso di diuretici per perdere peso, evidenziando quindi quanto possa essere grave il disturbo alimentari anche nei bodybuilders. Per quanto riguarda gli aspetti prettamenti psicologici i 3 gruppi non sembrano differire in termini di perfezionismo, mentre il solo gruppo dei pazienti bulimici ha evidenziato altre gravi caratteristiche psicopatologiche (es. depressione).
In sintesi, insoddisfazione del corpo, preoccupazione per il peso e la forma, dieta rigorosa, uso di stereoidi anabolizzanti, alimentazione incontrollata e una storia di bulimia nervosa sono risultati essere molto diffusi nei CMBB e, in misura minore, nei RMBB. Inoltre, i bodybuilders hanno mostrato livelli di preoccupazione di peso e forma, insoddisfazione del proprio corpo, disordini nell’alimentazione e perfezionismo simili a MBN, indicando che il gruppo di bodybuilders condivide molte anomalie legate all’alimentazione ma meno caratteristiche psicologiche generali con i pazienti affetti da bulimia nervosa. In ultima analisi, i risultati di Goldfield e colleghi suggeriscono che esiste un sottogruppo di MBB, che potrebbe essere maggiormente a rischio di sviluppare pratiche alimentari malsane, e comportamenti per il controllo del peso, tra cui abbuffate o una vera e propria bulimia.


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